Quando conducevo studi di meditazione alla Scuola di Yoga Clássico di Brasilia, proponevo una sfida. Per alcuni minuti, ho chiesto ai praticanti di immaginare come avrebbero reagito se si fossero trovati improvvisamente completamente soli con se stessi.
“Immagina di essere cieco, sordo, muto, con un corpo paralizzato. Tutto si riduce a te e alla tua mente lucida. Senza il supporto di film, libri, musica, una voce o una figura cara. Tu e l’universo interiore che hai costruito durante la tua vita. Ti basterebbe il tuo mondo privato?”
È la domanda che mi pongo da molto tempo: il mio mondo sarà abbastanza se tutto il resto mi mancherà? È una domanda importante da porsi in questi tempi in cui la pandemia ci ha costretti ad affrontare la possibilità della solitudine. Perché abbiamo così tanti problemi a stare da soli? C’è qualcosa di più oltre al nostro bisogno di convivenza sociale?
Mi piace coltivare una grande forza interiore, mettermi alla prova permanentemente e prepararmi ai momenti di avversità in cui posso contare solo su me stesso. La solitudine è la mia alleata nel mio rafforzamento, che non esita a rinunciare al conforto per trovare la verità stessa. Ogni giorno passo ore in silenzio, da solo, senza fare rumore. Solo marinare in solitudine.
Ci sono diversi percorsi di solitudine. Due di loro mi stanno particolarmente a cuore: la natura e quella che io chiamo “stanza privata”.
In natura, la mia solitudine è più contemplativa e amorosa. Di fronte a vasti paesaggi, foreste, oceani e montagne, qualcosa in me si inchina alla grandezza. E mi rende ancora più silenzioso. La forza della natura mi mostra il mio piccolo posto in questo mondo, mette a nudo la fragilità della vita e mi invita a cercare qualcosa al di là dei dettagli quotidiani, qualcosa che dia senso alla mia esistenza.
Anche se faccio della natura il mio altare, che mi mette in uno stato di riflessione quando mi immergo in essa, so che la solitudine che mi offre è ancora impregnata dei condizionamenti che ho costruito. Anche senza la presenza di altre persone, sono comunque piena di ricordi, opinioni, valori, desideri, immagini e piccole illusioni accumulate.
Quello che preferisco davvero è la vera solitudine, quella nuda e profonda, in cui mi vedo come sono veramente, senza trucco.
In questo esercizio di immergermi in me stessa, circondata da un’estrema quietudine, mi piace strappare via tutti i miei strati di credenza, affetto o disgusto, ed esaminarli uno per uno, con la freddezza di uno scienziato. Cosa mi è stato insegnato, in cosa credo realmente, a cosa sono stata condizionata, quale opinione degli altri ho incarnato?
Emergo più indipendente, più fiduciosa.
La solitudine mi insegna a concentrarmi su ciò che mi riguarda, senza dare soddisfazione agli altri. Allo stesso modo, mi aiuta a schivare di intromettere nella vita degli altri. Non è il mio compito. Penso alla solitudine come a un sofisticato spazio di privacy. Ecco perché la chiamo una stanza privata. Ci sono così tante cose dentro di noi che non dovremmo dire agli altri. gioiose alcune, imbarazzanti altri. Piccole risate, storie patetiche, ricordi intimi, vergogna e tristezza. A nessuno, tranne noi, interessano. Perché lanciarli alla curiosità degli altri? Nell’ora della solitudine, esse sono lì, come uno scrigno di tesori. Un posto tutto nostro, dove si può andare e godere qualcosa che nessun altro ha o conosce. È un innamorarsi di te stesso, in modo gentile e buono, consapevole delle tue imperfezioni, ma godendo della tua stessa compagnia, trovando il modo di essere felice con te stesso.
D’altra parte, nella stanza segreta si sente, nel silenzio assoluto e nell’introspezione, la voce della coscienza. Una voce sincera, senza sotterfugi, che interroga con saggezza e calma, senza appesantire eccessivamente la mano, ma senza esagerare con l’autocompiacimento. Uno spazio per l’apprendimento e l’osservazione in cui è possibile valutare ciò che ha motivato ogni gesto, parola o crisi della vita e cogliere la lezione corrispondente.
Nella stanza privata sono esposti tutti gli ostacoli, l’imprevidenze e gli eccessi. È la nostra vita pronta per essere esaminata da vicino, per insegnare qualcosa che solo noi sappiamo. Un privilegio.
Fuori dalla stanza c’è rumore, litigi che non sono nostri, persone chiassose che parlano (o scrivono) senza sosta, e un mondo di desideri che appartengono agli altri. Si raccomanda di non farli entrare.
Mi ritiro nella mia solitudine meditativa come gesto di amor proprio. L’autoconservazione è essenziale per me. Mi ci è voluto del tempo nella mia vita adulta per rendermi conto che non ho bisogno di soddisfare esigenze esterne, conoscere tutte le canzoni, i film, le musiche e i libri che sono rilevanti per gli altri. Non sento il bisogno di leggere tutti i rapporti, alzare bandiere e adempiere ai doveri degli altri. Né mi sento obbligata ad avvertire gli altri delle follie o delle trappole in cui si sono volontariamente gettati. Ho imparato a distinguere tra capire ed essere complice; tra amore e sottomissione. Mi sono anche liberato dal giustificare le mie opinioni quando sono spiacevoli, anche se sono onestamente espresse. E ho scoperto che ho solo bisogno di sapere della mia lotta per amare (e tutte le volte che ho fallito, anche se ho cercato disperatamente di essere qualcuno migliore). Ho imparato ad essere paziente con me stesso.
La mia solitudine gradualmente mi libera dei ricatti e dalle aspettative degli altri. Con lei imparo a partire e a lasciar andare, senza sensi di colpa, senza pretese. Ogni giorno mi invita a rimanere ferma nelle decisioni che prendo, rispondendo per esse, qualunque siano le conseguenze.
La mia solitudine è la mia libertà.
Testo: Sonia Zaghetto.
Traduzione: Fernanda Belotti
Immagine: Solitudine, di Frederic Leighton